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Ripensare la comunità

Politica e cultura
Photo by José Martín Ramírez Carrasco on Unsplash

L’importanza della questione della comunità deriva dal fatto che essa comporta inevitabilmente la questione dell’Altro in quanto, per citare le parole di Roberto Esposito, l’ego sum cartesiano si traduce sempre in ego cum, poiché «lo stesso io non è pensabile che in rapporto agli altri».
In ogni momento della nostra vita siamo sempre rapportati ed esposti all’alterità, in particolar modo al giorno d’oggi in cui viviamo nel tempo della globalizzazione e della tecnica. Sempre più spesso, però, non siamo capaci di gestire tale rapporto che viene, dunque, caratterizzato dalla paura e dal desiderio di escludere l’altro inteso come “estraneo”, “diverso”.
Da quest’ultimo cerchiamo di prendere le distanze per evitare il contagio e il confronto con esso. L’esempio più palese di questo atteggiamento lo si può riscontrare nella creazione, in passato, dei ghetti ebraici o dei campi di concentramento e, fino a poco tempo fa, nella presenza dei cosiddetti “manicomi”, strutture adottate dalla società per rinchiudere esseri umani affetti da disturbi mentali che avrebbero potuto mettere in discussione la “normalità” della quotidianità.
Da questi esempi si evince come, sempre più spesso e sempre più ingiustificatamente, l’altro sia investito da un giudizio di valore negativo in quanto potrebbe mettere in pericolo la parte “sana” della società. Basti pensare a come, sempre più frequentemente, gli extra-comunitari, ovvero colore che, per dirla con Derrida, «non sono della famiglia», sono visti come portatori di malattie, assumendo essi stesso l’aspetto di un virus che minaccia il corpo dell’Occidente (ancora una volta si fa uso del lessico della biologia che, già in passato, aveva guidato le politiche del nazismo).
La logica della paura è anche ciò che sta guidando gli Stati verso strategie politiche sempre più difensive nei riguardi di chi minaccia il proprio benessere ed è ciò che ha portato l’individuo a chiudersi in una dimensione di immanenza, in una bolla che tende a separarlo da tutto ciò che lo circonda. Non a caso l’epoca moderna ha visto affermarsi, in maniera sempre più decisiva, l’individualismo che si basa sulla visione del singolo come di un essere assoluto, autosufficiente e padrone di sé (il soggetto razionale cartesiano) e che ha reso la vita di tali esseri un affare privato determinando di fatto il fallimento della dimensione del con.
In questo senso, è necessario ed è diventato sempre più urgente ripensare la comunità perché, attraverso essa, si possa tornare ad interrogare il nostro tempo in cui è venuta meno la capacità relazionale e il principio del prendersi-cura l’uno dell’altro.
Colui che per primo ha avvertito quest’urgenza è stato Georges Bataille che, nel periodo tra le due guerre mondiali, sente che la società si stava decomponendo in senso individualistico e giunge a formulare la nozione di comunità proprio dalla coscienza di dover superare tale possibile deriva. Infatti, il filosofo francese si fa portavoce dell’idea che la modernità sia contrassegnata dalla crisi e dalla lacerazione delle relazioni umane e, cosa ancora più grave, dal paradigma della «comunità perduta». Dalla coscienza di tale perdita, ebbe luogo per Bataille l’esperienza comunitaria di Acéphale destinata precocemente a fallire.  
Acéphale nasce come rivista nel 1936 ad opera proprio di Bataille e del pittore Andrè Masson ma si esaurisce presto, arrivando a quattro numeri in tutto. Oltre ad essere una rivista, fu anche l’esperimento di una comunità segreta, elettiva e apoliticamente fondata, in quanto denunciava l’inadeguatezza della politica a condurre l’uomo verso quell’ “esistenza totale” a cui continuamente tende. Essa, inoltre, aveva l’obiettivo di recuperare la “totalità perduta” creando un autentico legame collettivo e configurandosi come l’unico baluardo contro l’assenza di comunità rappresentata dalle democrazie e come risposta alla crisi della modernità che «disgrega l’esistenza sociale»[1].
Di questa società non sappiamo nulla, a causa del segreto imposto agli adepti, a parte il fatto che era caratterizzata da una composizione gerarchica e che i membri erano soliti riunirsi di notte nei boschi, lontano da Parigi, per dar vita a pratiche orgiastiche o a riti primordiali che dovevano esporre l’uomo alla perdita della dimensione individuale e assorbirlo in un’unità mistica[2]. L’acefalo, infatti, apriva lo spazio a quella che avrebbe dovuto essere una condivisa perdita della testa (che rappresentava il sacrificio dell’Io e la morte della ragione) da parte dei membri della comunità. Essi avrebbero dovuto condurre un’«esistenza mistica comune» in un universo caratterizzato dalla morte di Dio, intesa come morte di qualsiasi sovranità. Così che tale comunità, sulla scorta di Nietzsche, assume i tratti di una comunità della tragedia in cui si instaura una connessione tra legame comunitario e festa dionisiaca.
Tuttavia, proprio da questa esperienza comunitaria ispirata ad una logica sacrificale e al tema della “morte in comune”, Bataille arriva a decretare che l’unica possibilità di comunità consiste nell’ «absence de communauté» e imprime una svolta decisiva alla sua riflessione che comporta l’abbandono, nonché la sfiducia totale nella politica e il rifugiarsi nella soluzione finale della comunità degli amanti caratterizzata dal segreto.
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Sulla scia del pensiero di Bataille, si collocherà successivamente il dialogo tra Nancy e Blanchot. In particolar modo, Nancy sente l’esigenza di tornare a pensare l’essere-in-comune partendo dall’idea che la comunità si realizza solo nel momento in cui la singolarità si apre ad un’altra singolarità giungendo, così, al limite dell’immanentismo e opponendosi, perciò, a qualsiasi meccanismo di identificazione fusionale. Rispetto a Bataille, il quale si è fermato nella sua riflessione a decretare l’impossibilità della comunità, Nancy ritiene che bisogna fare un passo avanti percorrendo fino in fondo la dimensione del con.
È questo il punto fondamentale che darà luogo al confronto-scontro tra Nancy e Blanchot. Entrambi riscontrano nell’inoperosità l’elemento essenziale per la creazione della comunità; tuttavia, mentre Blanchot lo riveste di una patina di inconfessabilità, riprendendo il tema batailleano della comunità degli amanti, Nancy ritiene che vi possa essere comunità solo nel momento in cui i singoli compaiono gli uni agli altri attraverso la comunicazione.
Attraverso questo percorso che vede dialogare tre tra i più grandi pensatori francesi della storia della filosofia occidentale, è possibile interrogare il nostro tempo nella speranza di giungere a ripensare un mondo che faccia dell’essere-in-comune un’esperienza di libertà. Un mondo in cui ogni essere umano si apra all’incontro con l’altro secondo la modalità della cura e veda in questa apertura la possibilità propria della sua esistenza, arrivando finalmente a comprendere che, per usare le parole di Hölderlin, «nessuno sostiene da solo la vita».
Note:
[1] G. Bataille, Chronique nietschèenne, «Acéphale», n°3/4, luglio 1937, ried. in Id., O.C., p. 477; trad. it. P. 78.
[2] Ma l’esperienza orgiastica è realmente un’esperienza comunitaria? Se l’altro che mi è di fronte è l’unica possibilità che ho per arrivare alle soglie della verità ultima, è giusto sacrificarlo o sopprimerlo nell’indifferenza che l’esperienza orgiastica comporta in cui l’io e il tu scompaiono totalmente? Oltre a questo problema, si pone quello di carattere storico, cioè se sia possibile nel tempo di Bataille e nel nostro una comunità che si fondi sul carattere orgiastico. Riguardo quest’ultimo problema, il sociologo Maffesoli ha sostenuto un ripresentarsi del dionisiaco nell’età moderna e soprattutto postmoderna. Egli si riferiva in particolare alle feste, ai raves e ai raduni studenteschi che, in qualche modo, sembravano richiamare l’orgia dionisiaca. Tuttavia, oltre a presentarsi come un discorso soggettivo, si è fatto presente che queste forme non possono ancora definirsi “comunità” dal momento che si aggregano e disgregano ai margini della polis rivendicando molto spesso il diritto alla marginalità. [Si veda M. Maffesoli, L’istante eterno. Ritorno del tragico nel postmoderno, trad. it. Di P. Chapus e M. Tommasi, e La parte del diavolo, a cura di I. Pezzini, entrambi Luca Sossella editore, Roma 2002 e 2003].
Giusy Nardulli
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