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La situazione storico-politica della zona murgiana nel 1860

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Gravinaoggi Altamura


Le condizioni socio-economiche della nostra provincia pugliese negli anni cinquanta del secolo scorso non erano tali da far prevedere un rivolgimento politico così netto e radicale da privare la dinastia borbonica del suo regno napoletano. Esso nell'arco di un sessantennio era passato attraverso crisi profonde, sanguinose come quelle del 1799 e travagliate come quelle del 1820 e del 1848 ma la monarchia ne era sempre uscita più rafforzata grazie all'incondizionato appoggio popolare. Le masse popolari pugliesi tutte le volte che dovettero scegliere fra la monarchia napoletana o la straniera, o fra il loro re ed i liberali si schieravano sempre per il loro re. E nel 1860 il sentimento popolare non è cambiato. Nel 1799 erano state le classi medie a sentirsi « Giacobine », e « Liberali » nel '20 e nel '48 e perciò i Borboni le temevano e le avversavano, ma nello stesso tempo si preoccupavano per il popolo, che si era sempre mostrato sincero e devoto. Fra il 1848 e il 1860 la monarchia borbonica aveva cercato di economizzare il più possibile (poche opere pubbliche, ma anche poche tasse) per non gravare i sudditi di nuove imposte. Infatti le imposte erano inferiori a quelle di tutti gli altri stati italiani: il debito pubblico era inferiore quattro volte a quello del Piemonte; era insignificante; la qualità di moneta metallica circolante era il doppio di quella di tutti gli altri stati messi insieme. La Puglia, integrata in questo sistema e fra le regioni meglio dotate del Regno delle Due Sicilie, apparteneva ad uno stato arretrato ma che aveva accumulato molti risparmi e numerosi beni collettivi e possedeva, tranne il settore della pubblica istruzione, tutti gli elementi per una trasformazione economica non violenta, organica e senza dubbio più profìcua di quella che poi ci assicurò la annessione al Regno di Sardegna. Non è quindi nella coscienza popolare che il movimento unitario trovò il favore e la forza per affermarsi. In un moto che era cominciato in sordina, che si era propagato in una Sicilia che aveva sempre nutrito speranza di autonomia ed era passato nel continente appoggiato soprattutto dalle classi medie intellettuali e poi dai ricchi proprietari, che si erano accorti del grave errore che avrebbero commesso se fossero rimasti legati ad una monarchia la cui sorte era segnata da quando il Piemonte, vista la scarsa resistenza, si era impegnato apertamente. Contadini, piccoli artigiani, braccianti, piccoli impiegati e « zappatur » non ebbero alcun modo di interferire e si accodarono in alcune occasioni ai « patrioti » nostrani e lo fecero esclusivamente per opportunismo. Così come ad Altamura, essi non vollero privarsi della possibilità di dire ai nuovi potenti: abbiamo combattuto per voi, abbiamo diviso i sacrifici, dividiamo ora anche i benefici. Essi rinfacciano ai liberali, che li avevano convinti a sostenere la rivoluzione, di aver fatto «unanimi quel che si diceva esser bene». Essi ricordano al sindaco di aver manifestato apertamente «il nostro sentimento di amore e di fedeltà al Re prode e leale Vittorio Emanuele e al Dittatore Garibaldi » per i quali «noi ed i figli nostri siamo pronti a dare fino al nostro sangue»; rivendicano con una minaccia appena velata la terra da tempo promessa «a dividersi fra noi popolani proletari». «Alla promessa è tempo che si attenga... altrimenti noi resteremo molto contristati se ci vedessimo delusi» ed aggiungono che ai tempi che corrono mille individualità corrive mancherebbero al bisogno». Ma cosa ottengono? Gli interessi dei vecchi ricchi proprietari e quelli dei nuovi dirigenti coincidono; ambedue intendono mantenere le condizioni economiche e sociali preesistenti senza mutamenti di sorta. A ragione Federico Persico ammetteva che « l'unità italiana fu un fatto che giunse inatteso a quei medesimi che la desideravano... ma che il principio vero, la causa intima di questo gran moto non è ancora palese». E non poteva esserlo perché era inimmaginabile che la liberazione del Sud fosse in realtà una vera guerra di conquista. I generali del magnanimo, del galantuomo Re Vittorio non potevano essere conquistatori come quelli di Napoleone; essi erano italiani ed erano i liberatori, anche se alcuni di essi parlavano e scrivevano quasi esclusivamente in francese. Con questa falsa idea, con questa illusione nel cuore i liberali meridionali si precipitarono ad abbracciare i fratelli Piemontesi. Ma che hanno ottenuto gli uomini del popolo? In Puglia, in cui era largamente diffuso il latifondo, si richiedeva insistentemente la divisione delle terre. Ma tutto cadeva nel nulla di fatto. Ad Altamura, dove a più riprese era stata chiesta la divisione della Masseria «Polisciazzo» promessa dal Governo Provvisorio, quando finalmente arriva il Commissario Demaniale, vista la precarietà della situazione, se ne va lasciando inalterata ogni cosa. Dunque con la caduta della Dinastia dei Borboni e la conseguente annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna la nostra classe dirigente pugliese, disponibilissima verso ogni nuova direttiva del potere centrale, non si preoccupava della povertà e delle speranze delle popolazioni contadine che non chiedono altro se non la realizzazione delle promesse fatte. E perciò in Puglia il malcontento serpeggia, e non solo in questo strato della popolazione, ma anche fra molti liberali che aspiravano a lucrose cariche del nuovo assetto politico e che si vedono invece scavalcati da individui dalle ambizioni senza limiti che fulmineamente si sono proclamati liberali quando Garibaldi già saliva per la Calabria.
In questo habitat ideale, favorito dall'acefala politica piemontese, dalla volontà di vendetta della plebe e dalle caratteristiche geologiche della Regione, si sviluppa in brevissimo tempo il brigantaggio: fenomeno nello stesso tempo economico, sociale, politico, che si poggia nelle campagne alla smisurata avidità del ricco proprietario il quale, non ancora sentendosi protetto dal potere costituito, accoglie il brigante come amico, lo protegge, lo ospita e lo sfrutta per le proprie vendette personali. Anche in città i briganti hanno complici e spie che talvolta occupano posizioni-chiave nell'Amministrazione. Massari infatti accuserà «malvagio autorità municipali e indegne guardie nazionali» di essere stati complici dei briganti nei saccheggi di Carovigno e di Grottaglie. Dunque dall'amarezza della delusione e dal tormento del bisogno nasce il grido di rivolta e molti cedono facilmente alle lusinghe degli emissari del movimento legittimista nell'estrema speranza di poter finalmente realizzare tutto ciò che è stato loro sempre negato. E si verificano qua e là esplosioni di violenza, che sono ritenute dal governo come dirette contro il nuovo stato italiano che si va delineando e non contro la sua incapacità a risolvere la tragica situazione economico-sociale delle nostre povere popolazioni meridionali. E perciò laddove si verificano sollevazioni e manifestazioni d'insoddisfazione di contadini con grida avverse ai liberali, la repressione delle autorità militari arriva spietata, inumana e sconvolge profondamente il nostro popolo, spingendolo alla lotta a fianco degli sbandati, dei renitenti alla leva obbligatoria da espletare nell'esercito piemontese, dei nostalgici del passato regime, del clero reazionario e dei briganti, che appaiono come vendicatori e giustizieri. Il banditismo diventa un'arma naturale di vendetta contro gli oppressori; chi vuol farsi giustizia colle proprie mani ed esprimere la propria ribellione contro tali soprusi e iniquità diventa brigante e ripara nel bosco o sul monte. Ma ogni speranza viene distrutta dalla repressione dei Piemontesi i quali inferociscono spesso anche su poveri innocenti, come per es. capitò a quei tosatori di pecore che, in una masseria presso Sansevero, creduti briganti che banchettassero allegramente, mentre stavano mangiando un tozzo di pane prima di rimettersi al lavoro, non ebbero nemmeno il tempo di parlare a causa della fulminea azione d'attacco che li trucidò senza misericordia.
Mons. Carlo Caputo, L’Eroe della “Graviscella” Ricerca storica su Padre Maria Cardano,1984

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