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La lotta per il pane e lavoro a Gravina

Città e Territorio

Gravina in Puglia Ponte aquedotto

La ricerca del benessere e della libertà è il motore della storia


La miseria e la povertà dilagavano in tutte le famiglie dei contadini e dei pastori di Gravina. Per trovare una giornata di lavoro, ogni sera, all’ora del tramonto, questi lavoratori erano costretti a restare in piedi per lunghe ore, con le mantelle nere dal bavero di lana di pecora sulle spalle, in piazza delle Some, oggi piazza Notar Domenico, per il mercato umano delle braccia. Si offrivano muscoli a giornata agli agrari per una misera paga. Il mercato di piazza era il luogo ove, oltre a svolgersi l’ingaggio di manodopera, si stabiliva la tariffa sindacale con il “massaro di campo”, perché il padrone non lo si vedeva mai. Nella tratta delle braccia non tutti trovavano lavoro e dopo lunghe ore di attesa molti cafoni tornavano a casa sfiduciati. E all’alba, per portare a casa qualche lira, partivano per la campagna, in cerca di funghi, lamponi e cicorielle, per poi venderli la mattina. Nei mesi della trebbiatura andavano a raccogliere le spighe del grano, al ritorno dalla campagna una minestra calda ed un bicchiere di vino. Questa era la vita della maggior parte dei contadini gravinesi negli anni della ricostruzione. Il pastore, lavoratore dell’azienda armentizia, media e grande, seguiva una organizzazione speciale alla quale non poteva sottrarsi, pena l’allontanamento dal lavoro: obbedire al “massaro di pecora”, il diretto responsabile verso il padrone, al quale era attaccato da vera fedeltà e devozione. Egli dava gli ordini ai dipendenti, indicava il luogo dove far pascolare il gregge, assegnava i permessi a turno, vigilava sulla mungitura delle pecore. I pastori passavano gran parte della vita in mezzo al gregge. Nella monotonia dei riposi, nella durezza degli addiacci, tra le pecore miti e i cani feroci, tra i pascoli, non comprendevano il dinamismo della vita. Erano adusati dalla piccola età a tutte le asprezze dell’esistenza, alla parsimonia, alle intemperie e alle privazioni.
In quegli anni si moltiplicavano le manifestazioni di protesta. Gli slogan erano del tipo: “non vogliamo consegnare il grano all’ammasso”, “vogliamo il pane e il lavoro”. Alcune di queste manifestazioni si trasformavano in rivolta, nella maggior parte giuste rivendicazioni, perché a Gravina si requisivano centinaia di agnelli dalla produzione armentizia locale e grossi quantitativi di formaggio, per le popolazioni di altre città, mentre ai gravinesi non veniva fatta assegnazione di carne e alimenti essenziali per diversi mesi. Giacevano grandi disponibilità di pasta a Gravina, a disposizione degli uffici provinciali dell’alimentazione, mentre la popolazione soffriva la fame. Le lotte per il pane e il lavoro, per la sopravvivenza, per donare ai propri figli un domani migliore, di libertà, di benessere, senza servitù, furono gli assilli quotidiani della massa operaia. Il popolo gravinese era stanco di essere succubo di pochi terrieri, i quali, in genere si erano arricchiti con malizia e furberie, frodando e rubando durante il periodo precedente. In pochi guazzavano in tanta abbondanza e la stragrande maggioranza del popolo soffrire la fame. La ricerca del benessere e della libertà è il motore della storia. E l’ansia di riconoscimento diventa il più terribile fattore di mutamento sociale, di equilibri consolidati. Gravina era il paese più turbolento della provincia di Bari, segnalava in prefettura il commissario straordinario dell’epoca. Gravina bracciantile, infatti, costrinse il prefetto ad emettere nel ’44 il primo decreto d’imponibile di manodopera per i disoccupati agricoli, il primo in Italia. E la lotta contro i padroni delle terre diventò più violenta, a muso duro. In questi anni del secondo dopoguerra la propaganda anticlericale dilagava, insultando, denigrando vescovo, sacerdoti e religiosi. La Chiesa si trovava in cattive acque perché non sempre riusciva a stare con la classe operaia. L’intervento del vescovo del tempo, mons. Fra Giovanni Maia Sanna, verso i “signori agricoltori” si rese inevitabile: “bisognava assicurare un po’ di lavoro agli sventurati”, perché le condizioni di vita dei lavoratori erano impressionanti. In quegli anni si ribellò la vita, insomma e Gravina in Puglia si proclamò la “seconda repubblica rossa”, dopo Bitonto. In queste lotte per il lavoro cresceva la solidarietà, la collaborazione, la capacità di operare insieme per risolvere i problemi. L’individualismo del contadino meridionale segnava il passo di fronte ai successi che registrava l’azione comune. Queste lotte per il lavoro posero i braccianti al centro dell’attenzione generale. Vi era stato qualcosa di qualitativamente nuovo: cominciavano a fare politica. I braccianti, ultima ruota del carro sociale, partendo da una condizione di estrema miseria, da una difficile condizione di vita sociale, seppero prospettare ed alimentare un corpo di proteste riformatrici di rilevante respiro e vigore nazionale. Una delle punte avanzate dei combattivi movimenti contadini della Puglia fu certamente Gravina. Non mancò in quegli anni la presenza e l’opera di alcuni malviventi che si arricchirono senza lavorare.
Ci siamo documentati, scovando, rovistando, investigando nella corrispondenza dei prefetti e dei commissari straordinari dell’epoca (presso l’Archivio di Stato di Bari e l’Archivio comunale di Gravina) per interrogare la storia, vera maestra di vita. Storia dell’uomo, che ci umilia ma, al tempo stesso ci esalta, perché le rivendicazioni, erano giuste d essenziali, erano necessarie. La storia umana e sociale della città ci aiuta a vivere la nostra vita con maggiore consapevolezza, ci aiuta a capire e comprendere meglio la realtà nella quale viviamo, per renderci conto di come tale realtà si sia formata nel corso del tempo. E di avere lumi per meglio capire e comprendere la situazione esistente e contribuire a migliorarla.

prof. Michele Gismundo

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