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La fiera di Gravina, ieri

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Gravina in Puglia Corteo storico


Gravina possedeva da sempre l’antico privilegio di poter tenere una volta l’anno una fiera di esportazione e di importazione. Lo stabiliva un Regio Decreto del febbraio 1294, a firma di Carlo II d’Angiò. Una fiera annuale che doveva tenersi nella prateria circostante la chiesa di San Giorgio. Le operazioni di compravendita dovevano iniziarsi cinque giorni prima della festa di San Giorgio del 23 aprile. Questa fiera era distinta in esterna ed interna. La prima si svolgeva fuori le mura della città, nei pressi della chiesa di San Giorgio, per la compravendita di bestiame sia di produzione locale che importata. Cavalli, muletti, giumente, boui aratori, vacche, pecore, bufali e capri ecc. La seconda si svolgeva all’interno della città con larga esposizione di generi diversi. Cereali, vini, olii, formaggi, tessuti di ogni specie, ricami, argenterie, ecc. I mercanti forestieri, affluendo da tutte le parti del regno, portavano tutte le merci più svariate, sicuri di trovare in Gravina una base certa per lo smercio, riportandone via quelle specialità che la nostra piazza offriva. Gravina diventava in questa circostanza un vero emporio. La Fiera poteva gareggiare con quella di Sinigallia. Si organizzavano, per le occasioni, feste da ballo e si impiantavano sale da gioco e teatrini. E così case, piazze e vie si popolavano di una folla festosa. L’amministrazione comunale creava un dirigente cui si dava il nome di Maestro di Fiera. Comandava gli agenti municipali per sorvegliare gli eventi.

Per Gravina era un grosso avvenimento la Fiera. Si vendeva di tutto e in maniera abbondante. Arrivavano da lontano con traini, mandre di cavalli, buoi, asini, pecore; prendevano posto nei diversi ovili che circondavano la città e, chi poteva, in abitazioni private, secondo l'assegnazione dei "competenti" della fiera. Il bestiame, nella grande spianata che, oggi, aiutandoci con la fantasia, è tutta occupata da case: il piazzale attorno alla chiesa di San Giorgio: - doveva cominciare secondo la toponomastica odierna - da corso Canio Musacchio, allora tutto prato e, salendo verso la chiesa del Santo Martire soldato, oggi alle spalle del cinema Sidion, per il canale d'Alonzo (Casale), risalendo l'attuale rione Giuglianiello, tutto largo Cappuccini, attorno alla chiesa San Felice (chiesa della Risurrezione nel 1570), tutto il parco S. Eligio: oggi via Maiorano - Moles - Panni - Maddalena - Gogavino - Spinazzola - Martiri Via Fani – viale Regina Margherita e, dopo il 1599, attorno alla chiesa Madonna della Grazia, estendendosi, fino ad occupare largo Fazzatoia, a ridosso della "Gravina". Doveva essere una immensa distesa, gremita di bestiame: un brulicare di pecore, capre, un nitrire di cavalli, un ragliare di asini, un muggire di buoi, un pigolare di pulcini, un luccichio di metalli, una fantasmagoria di colori, di abiti, di capanne, uno schioppettìo di frustre, un intrecciar concitato di dialetti, un agitare di braccia, un levar di bicchieri colmi di quel vino che è stato ed è il vanto della laboriosità del nostro contadino: la "Verdeca". Un via vai di gente indaffarata, preoccupata, allegra, aitante, appoggiata a bastoni, simboli di fiera, un luccicar di catene argentee o dorate, un dondolar di orecchini lunghi e sfarzosi, un mostrar di petti ornati di collane o gilét impreziositi di catene che formavano l'orgoglio di donne o di uomini d'affari: zingari, mercanti, curiosi che facevano triplicare o quadruplicare la popolazione.

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